Gerald Mballe ha solo 24 anni eppure quando parla dimostra una maturità e idee molto chiare che vanno ben oltre la sua età anagrafica. E’ in Italia, come rifugiato politico, da circa 6 anni ma “il suo viaggio verso un futuro” è iniziato ancor prima. Parte, senza certezze, da Kolofata, cittadina nell’estremo nord del Camerun al confine con la Nigeria; oltre 2.000 chilometri di frontiere dove i tagliagole, affiliati allo stato Islamico, tendono a sconfinare sempre più spesso, saccheggiando e uccidendo. Proprio la zona frontaliera tra Nigeria e Camerun è considerata il rifugio della setta fondamentalista, luogo di scorribande ed attentati terroristici. Dal suo arrivo in Italia, dopo un lungo e duro viaggio, ha continuato a fare tanta strada dedicandosi al volontariato fino a diventare un funzionario della Croce Rossa italiana. Ha proseguito i suoi studi diplomandosi ed iscrivendosi presso l’Università degli Studi di Torino, dove sta conseguendo una laurea in Relazioni Internazionali. Da pochi giorni Gerald Mballe, Mballe è diventato il primo consulente, a livello mondiale, del programma Unificato di Special Olympics con i rifugiati. Gerald guiderà lo sviluppo internazionale del programma, attualmente attivo in circa 11 nazioni, che vede giocare insieme, nella stessa squadra, atleti con disabilità intellettiva e rifugiati politici. Inoltre, Gerald sosterrà il continuo impegno del movimento per la diversità, l’equità e l’inclusione. Il suo ruolo lo vedrà anche come portavoce per l’emergente partnership globale di Special Olympics con l’UNHCR.
“Entrare a far parte di Special Olympics come primo consigliere del programma “Unified with Refugees” è la cosa più eccitante che sta accadendo nella mia vita rappresenta il migliore modo per ricambiare il travolgente benvenuto che gli atleti di Special Olympics mi hanno dato alcuni anni fa, quando mi hanno invitato nella loro famiglia in un momento di grande disperazione personale. Non vedo l’ora di iniziare!”.
Il viaggio della speranza
“Vivevo sempre sotto tensione – ricorda Gerald – poi un giorno, l’ho capito realmente solo in seguito, mio zio mi ha salvato la vita permettendomi di sognare un futuro. Mi ha affidato ad un signore, a lui vicino, e insieme ad altri tre ragazzi abbiamo iniziato un lungo viaggio, lungo il quale incontravamo sempre nuove persone che, come noi, sognavano un futuro diverso. Non sapevo quale fosse la destinazione, ma che certamente sarebbe stata lontana dal mio Paese e dalla mia famiglia. Entriamo in Nigeria, poi nel Niger fino all’Algeria spostandoci con pullman, treno, macchina e motociclo, sul quale ricordo bene di aver viaggiato, in tre persone, per oltre 20 ore, ma anche su barche, attraversando fiumi, e per lunghi tratti, a piedi, con la sola forza delle nostre gambe. In Algeria il mio viaggio prosegue senza quella persona alla quale mio zio mi aveva affidato; con un gruppo arriviamo fino in Marocco dove resto per sette mesi, fino a quando con alcuni di loro giungiamo in Libia, a Sabrata. Dopo circa un mese un signore mi disse che sarei dovuto andare a fare un lavoro insieme ad altri ragazzi: dal retro di un furgone chiuso mi sono ritrovato all’improvviso in mezzo al mare, su un barcone con altre 100 persone. Vedevo gente piangere, mamme impaurite con bambini piccoli, altri che vomitavano: avevo paura anche io. Dopo tre giorni, agli inizi di novembre del 2015, sbarcammo a Pozzallo, in provincia di Ragusa, tra carabinieri e tante persone che ci dicevano: “siete salvi”. Non capivo ancora l’italiano ma sentivo, dentro di me, che quel viaggio di incertezza era finito, che era giunto il momento di poter iniziare una nuova vita. Dopo quattro giorni un pullman, eravamo una cinquantina, ci portò a Settimo Torinese: faceva freddo. Avevo voglia di studiare, di andare a scuola: ero determinato nel voler imparare la lingua del Paese che mi aveva ospitato”.
L’inclusione attraverso lo sport
“Al centro di accoglienza – racconta Gerald – per i primi sei mesi, in quanto ancora minorenne, mi affiancarono un educatore, Luigi Petrillo: è lui che mi introdusse, da subito, all’interno del Team Special Olympics “Pro Settimo Eureka”, attraverso il quale ho ripreso a giocare a calcio. Ho iniziato a farlo in una squadra unificata, composta da atleti e partner, rispettivamente con e senza disabilità intellettiva, che giocano insieme, nella stessa squadra. In Camerun le persone con disabilità sono messe da parte, non gli fanno fare niente: è bellissimo vedere queste stesse persone che, con le proprie difficoltà, ci mettono una grande forza e determinazione in tutto quello che fanno, vogliono giocare, hanno voglia di vincere. Mi sento molto vicino a loro perché abbiamo la stessa volontà di lottare per sentirci accettati dalla società, inclusi in un mondo in cui la diversità e le differenze culturali non sempre sono viste come una risorsa, ma spesso con pregiudizio. Ancora oggi mi capita di essere discriminato, come l’altro giorno, al bar, quando ho sentito dire, riferendosi a me, che non era il caso di sedersi vicino ad un negro”. Lo sport è uno straordinario mezzo di inclusione e gli eventi di Special Olympics sono la dimostrazione: riescono ad unire sotto un’unica bandiera tutto il mondo. Ho ancora vivo il ricordo dei Giochi Mondiali di Abu Dhabi, nel marzo del 2019, dove ho avuto la fortuna di partecipare come atleta partner e di riflettere su valori e modelli educativi da trasmettere, non solo ai giovani, per ambire ad un futuro migliore”.
Opportunità di vita
“Sono convinto che in futuro anche il mio Paese di origine possa trovare, attraverso lo sport, un’opportunità concreta di inclusione. Il calcio è un linguaggio universale, un mix di colori che può cambiare il modo di vedere la disabilità e contribuire, in questo senso, ad una crescita culturale. Il mio sogno l’ho già realizzato: voglio restare in Italia, imparare dagli altri e continuare a studiare per dare il mio contributo. Ho conseguito il diploma di scuola media inferiore e mi sono al liceo. Ho studiato anche per diventare volontario della Croce Rossa Italiana iniziando ad aiutare famiglie bisognose nella distribuzione di cibo così come nella raccolta alimentare. Dopo aver ricevuto il permesso di rifugiato, ho iniziato a prestare servizio civile all’interno del centro di accoglienza che mi aveva precedentemente ospitato, diventando mediatore culturale. Non ho intenzione di fermarmi con gli studi e la formazione che penso siano alla base della crescita di ognuno di noi: Sogno di restituire alle persone che mi hanno accolto, agli italiani, tutto ciò che mi hanno dato e voglio aiutare i nuovi che arriveranno ad integrarsi, per garantire loro, come l’ho avuta io, un’ opportunità di vita”.
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