La testimonianza di Francesco Verdolino, il papà di Agata
Per quel che ho potuto imparare dalla mia esperienza, generalmente chi vive la disabilità di una figlia si trova a dover gestire due modalità di interazione con gli altri.
L’approccio “imbarazzato”
– Ciao piccolè…come ti chiami –
– … –
– Si chiama Agata –
– Ahh…che bel nome…è timida? Non risponde? –
– No signora, ha una disabilità cognitiva, conosce poche parole –
– …..uhhh porella….quanto è carina però –
E l’approccio “tecnico-burocratico”
– Buongiorno, vorrei fare domanda per l’esenzione alla mensa scolastica –
– Sua figlia è disabile? –
– Si –
– Allora deve presentare la certificazione della commissione tecnica dell’INPS, corredata dal modulo di richiesta dell’ASL, controfirmato dalla neuropsichiatra di riferimento con un’impegnativa del medico di famiglia da consegnare all’azienda municipalizzata per farsi rilasciare il modulo allegato al bando. Mi raccomando entro la scadenza –
Da queste due modalità scaturiscono tutte le altre varianti, tipo: “imbarazzato-venale” (…uhhh porella…beh ma ora vi beccate l’indennità), “imbarazzato-entusiastico” (…uhhh porella…però sarà un’esperienza che vi arricchirà), “burocratico-aggiornato” (non avete ancora chiesto il bonus per le lezioni di zumba? È facile basta lo SPID. La scadenza è tra 10 minuti), “tecnico-poco scientifico” (ma è una cosa che colpisce i cromosomi del cervello?).
Una disabilità innata
Non è colpa di nessuno. È una questione culturale che ci tramandiamo da generazioni. Una disabilità innata (proprio una mancanza di abilità) che abbiamo tutti. Forse abbiamo superato col tempo l’approccio fondamentalista per cui “in fondo devi aver fatto qualcosa di sbagliato nella vita per meritartelo” o almeno voglio sperarlo. Ma da questo bivio proprio non ne usciamo.
Io stesso, alla dottoressa che ci presentò la diagnosi, dopo mesi alla ricerca di ciò che non andava, stavo quasi per dire “…uhhh porella…quanto è carina però”. Eppure ci sono persone che provano a relazionarsi in maniera differente. Prendiamo lo staff, gli educatori e le educatrici, gli allenatori e le allenatrici, i volontari e le volontarie di Special Olympics ad esempio.
Noi li abbiamo incontrati molto prima che nascesse mia figlia: la mia compagna era un’allenatrice del team locale. Così, quando abbiamo scoperto che tra le poche cose che mia figlia riusciva a fare da sola c’era il nuoto, abbiamo pensato di iscriverla subito nella squadra.
Puntare alle capacità e (saper) ascoltare
All’inizio è stata dura lo confesso: è gente che parla di inclusione attraverso lo sport, non ti chiedono che sindrome hai, non gli ho mai sentito pronunciare la parola “porella”. Anzi: “muoviti pigrona”, “tuffati e sbrigati”, “sbatti quelle gambe”. Persino la parte burocratica se l’accollano quasi tutta loro. C’è di che diffidare indubbiamente.
Ma se poi ti lasci andare, ti rendi conto che ci sono mille modi diversi per parlare di disabilità. Quando vedi tutte queste persone condividere le gioie di un successo, i dolori di una sconfitta, l’emozione di una medaglia, improvvisamente tutto il resto scompare. Te lo insegnano innanzitutto le ragazze e i ragazzi che si mettono in gioco, Atlete e Atleti. A quel punto non si tratta più di dover per forza trovare un modo per parlarne, ma di ascoltare cosa loro hanno da dire.
Io l’ho capito anche grazie a Special Olympics. Così, quando l’altro giorno per strada ci hanno chiesto ancora una volta “è timida? Non parla?” l’unica cosa che mi è venuta in mente di rispondere è stata “non parla signora…ma c’ha un sacco di cose da dire”.